Del Carbonio e altre storie
martedì 4 novembre 2025
mercoledì 19 febbraio 2025
Dell’importanza della terza missione e di chi dovrebbe farla
Anche se negli ultimi mesi non sono mancati articoli importanti, molto ben scritti ed esaustivi, che ponevano critiche piuttosto feroci nei confronti della cosiddetta terza missione, più di recente la discussione è esplosa anche a livello di social media, a partire da un articolo di opinione a firma di Claudio Giunta, pubblicato da Il Post, che a sua volta partiva da questo articolo di Claudio Marazzini.
Chi è già dentro il mondo universitario ha sicuramente ben presente di cosa si sta parlando, per gli altri basti sapere che la terza missione, che si affianca alla prima missione (la didattica) e alla seconda (la ricerca), è un insieme di attività che mirano a trasferire conoscenze e innovazioni al di fuori del contesto accademico, creando un impatto diretto sul territorio e sulla società. Si snoda principalmente in due diverse strade: una rivolta alle aziende, con la creazione ad esempio di start-up che si affiancano alla ricerca accademica, o con la pubblicazione di brevetti e licenze per l’utilizzo delle tecnologie e dei metodi che la ricerca ha creato, e l’altra invece rivolta alla comunità, quella che viene comunemente indicata come divulgazione, in cui figurano attività come seminari, festival o la famosa notte dei ricercatori.
Sono tutte attività che portano via una gran quantità di tempo ed energie, che vengono pertanto sottratte proprio alla ricerca che dovrebbe essere il lavoro primario di un ricercatore.
E io sono assolutamente d’accordo.
Molti immaginano la vita del ricercatore come a metà fra quella avventurosa di un Indiana Jones o un (più realistico) Charles Darwin e quella fatta di provette e lavagne piene di formule complesse, come quella di Einstein o Marie Curie. In realtà fare il ricercatore è un lavoro che, pur pieno di soddisfazione e se vogliamo divertimento, spesso è fatto anche di burocrazia, come quella legata all’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) con tutti i suoi punteggi e le sue valutazioni, o quella legata alla ricerca di finanziamenti che costringono spesso il ricercatore a dover fare vero e proprio marketing. Nel caso poi dei professori, vi si deve aggiungere le ore dedicate a una didattica che si evolve e che non è più soltanto lezione frontale ma laboratori, workshop, incontri e quant’altro. Per non parlare della corsa alla pubblicazione che, almeno nell’ambito scientifico, crea storture tutte sue su cui non mi soffermerò.
Quello su cui non sono invece per nulla d’accordo è la conclusione per cui la terza missione sia di scarsa importanza, in particolare nelle discipline umanistiche.
Non sono una grande fan di una distinzione così netta fra discipline umanistiche e scienza, perché spesso si tende sempre a sminuire una in favore dell’altra, con la scienza che è “utile” (aggettivo usato sia come insulto che come vanto) e il sapere umanistico relegato (o esaltato) a puro diletto mentale. Trovo che sia davvero ingiusto e sminuente nei confronti di entrambi questi rami del sapere, assai più intrecciati di quanto pensiamo, anche a causa di una divisione manichea e artificiale che ci viene inculcata fin dalla scuola. E credo fermamente che la cultura, che sia scientifica o umanistica, debba far parte integrante della vita della società a 360 gradi. Università ed enti di ricerca, come principali attori nella produzione di questo sapere, sono a mio parere fondamentali anche nella diffusione di questo sapere, in particolare nella società “civile”. Ma allora come conciliare questa fondamentale necessità con la consapevolezza che un ricercatore ha bisogno di potersi focalizzare sulla produzione di questo sapere?
In tutti questi ragionamenti, articoli, lamentele, come abbiamo visto giustificate dal punto di vista di un ricercatore, c'è una grande assenza: non viene mai nominato, neanche una volta, chi effettivamente per lavoro si occupa di questo. Di disseminazione della cultura. Insomma, di terza missione.
Quando si parla di divulgazione (scientifica o umanistica che sia) si pensa immediatamente ai Barbero e ai Piero Angela, a chi gira video su YouTube e su Instagram, a chi gira l’Italia con gli spettacoli ai festival della scienza e alle fiere del libro. Eppure il mondo della divulgazione (scientifica, che è quello di cui faccio parte e che è il mio lavoro, ma esistono molti esempi anche in ambito umanistico) è assai variegato e composto da professionisti che lavorano in tanti ambiti diversi, come ad esempio proprio l’università e i centri di ricerca.
Un divulgatore che lavora all’interno dell’accademia si occupa di organizzare e coordinare tutte le attività di terza missione che il dipartimento di cui fa parte mette in atto, dalla notte dei ricercatori, dove ad esempio si trova a dover organizzare laboratori, visite o dimostrazioni dei progetti di ricerca anche in ambienti esterni come piazze o exhibiter, ai seminari rivolti agli studenti delle scuole secondarie, in cui ad esempio necessario non solo occuparsi di creare e mantenere i contatti con docenti e dirigenti scolastici, ma anche e soprattutto affiancare i relatori stessi nella preparazione del seminario rivolto a un target estremamente preciso e spesso difficile da gestire. Sempre più istituzioni, inoltre, collaborano con l’accademia per la creazione di mostre ed eventi dedicati alla cittadinanza, che non hanno solo il ruolo di far conoscere l’università, ma che dovrebbero soprattutto contribuire a creare una cittadinanza più consapevole sui temi della scienza e della cultura, attività che richiedono una expertise che ovviamente i ricercatori non possono e non sono tenuti ad avere. Naturalmente chi si occupa di fare comunicazione della scienza in una università o in un centro di ricerca lavora a stretto contatto con i ricercatori che sono la sua fonte primaria e li prepara e affianca nel caso sia richiesta la loro presenza fisica in alcune attività (perché non si può prescindere dalla presenza dei ricercatori quando si comunica la ricerca, in un modo o nell’altro) e in generale si ritrova a dover gestire situazioni molto diverse da caso a caso, a seconda del dipartimento in cui si trova a lavorare e dei ricercatori stessi con cui deve interagire. Ovviamente questo non porta a zero il tempo speso da chi vuol partecipare alla terza missione, ma lo riduce drasticamente, oltre ad innalzarne la qualità e l’impatto, come spesso accade quando a occuparsi di qualcosa è chi ha effettivamente la formazione giusta per farlo.
Questa del “divulgatore in accademia” è una figura che, da ormai alcuni decenni, in molti Paesi esteri, specialmente anglosassoni, è ben diffusa e riconosciuta, direi istituzionalizzata, e in italia si sta iniziando a intravedere qui e là. Ciò che manca è appunto una organizzazione istituzionalizzata di questa figura, la cui presenza è ancora molto dipendente da quanto tal dipartimento o istituto è "illuminato" e dalle risorse finanziarie a sua disposizione, con evidenti grandi disparità territoriali.
Ne deriva un insieme di figure dall'inquadramento contrattuale nebuloso, per lo più assunte con assegni di ricerca che di ricerca hanno pochissimo perchè, appunto, il mestiere è un altro, o con inquadramenti come co.co.co o ancora come tecnologi.
Fa quindi un po’ tristezza, e un po’ rabbia, che quando si parla di terza missione, e di come questa porti via del tempo al lavoro di ricerca, il primo pensiero sia sempre quello di eliminare un qualcosa che viene considerato in fin dei conti superfluo e poco importante e mai quello di chiedere che a fare un lavoro fondamentale per la nostra società sia chi, alla fine, per quel lavoro si è formato e che ne ha le competenze.
lunedì 11 marzo 2024
Oppenheimer e quella cosa importante di cui non parla mai nessuno
Luglio (Agosto da noi... maledetti rinvii) 2023.
Milioni di persone affollano le sale cinematografiche per gustarsi l'ultimo film di Christopher Nolan, regista amatissimo, cult, amato e odiato in egual misura.
Avanti veloce fino a Marzo e quello stesso film si porta a casa ben 7 premi oscar fra cui miglior attore protagonista, miglior regia e miglior film.
Protagonista della pellicola è J. R. Oppenheimer.
Chi era costui?
E i chimici ringraziano
La fisica quantistica è un paradosso… ma funziona.
[Oppenheimer in una scena del film]
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| Equazione di Schrödinger con approssimazione di Born-Hoppenheimer |
Non tutto rose e fiori
venerdì 13 maggio 2022
Quella volta che Paperino scoprì il metilene
In una storia a fumetti del 1944, il grande Carl Barks, maestro assoluto dei paperi Disney, racconta di come Paperino, nel tentativo di aiutare i nipotini Qui, Quo e Qua nei loro esperimenti scientifici, prende una botta in testa e diventa d'un tratto uno scienziato brillante. La storia in questione è Paperino chimico genio (a volte pubblicata anche con il titolo di Paperino chimico pazzo) e sarebbe soltanto una delle tante, splendide, storie a fumetti sul papero più sfortunato al mondo, se non fosse che questo albo anni dopo fu citato più volte in articoli scientifici e testi universitari, e fu persino l'oggetto di una lettera mandata alla stessa Disney da parte di uno scienziato di Harvard.
Dopo aver ricevuto la botta in testa ed essere diventato un genio della chimica, Paperino inventa la paperite, un gas esplosivo dalle proprietà incredibili che Paperino sfrutta come propellente di un razzo, costruito per raggiungere la luna. Purtroppo durante il viaggio il nostro eroe guarisce e dall'essere “Professor Donald Duck, the Mightiest Chemist in the Universe!” torna il solito sfortunato e combinaguai di sempre. Riesce a tornare sano e salvo nel giardino di casa sua, ma il metodo di preparazione della paperite è completamente dimenticato.
Peccato, perché per sintetizzarla, Paperino utilizza una molecola che era stata solo teorizzata ma che non sarà ottenuta fino al 1959, ben 15 anni dopo: il metilene.
Il più semplice dei carbeni
Paperino chimico genio
martedì 9 novembre 2021
Scienziati si diventa: la terza missione dell'Università
Tradizionalmente, l'Università ha avuto due missioni
fondamentali: creare nuova conoscenza, attraverso la Ricerca, e
tramandarla, tramite la Didattica.
Oggi, invece, le cose sono radicalmente cambiate e a questi
due compiti si affianca una terza missione, ritenuta ormai fondamentale
in un mondo sempre più tecnologico e complesso.
Questa terza missione, che è entrata con questo nome nei
documenti europei a partire dal 2000, è la disseminazione della
conoscenza scientifica a beneficio della società nel suo complesso.
Verso la Terza Missione: il Public Understanding of Science
Nonostante sia un'introduzione piuttosto recente, già dagli
anni sessanta si era iniziato a parlare della responsabilità etica e sociale
che le Università hanno nei confronti della cittadinanza. La popolazione, è
stato man mano riconosciuto, ha il diritto di sapere verso quali obiettivi è
diretta la ricerca scientifica, in che modo potrebbe influire sulla società o,
più banalmente, per cosa vengono spesi i soldi dei finanziamenti, pubblici e
privati, a essa destinati.
Il rapporto, in modo molto esplicito intitolato "The Public
Understanding of Science", sottolineava come una maggiore
comprensione della scienza e dei suoi metodi sia un elemento cruciale per
aumentare la prosperità di una nazione. È anche importantissima nel processo
decisionale, sia pubblico che privato, e in generale nel rendere più ricca la
vita degli individui.
Secondo gli autori, poichè la nostra società è altamente
tecnologica e dipende da un'industria fortemente science-based, non
conoscere i principi secondo cui la scienza si muove è impensabile e non può
che portare a un indebolimento dell'industria, prima, e dell'intera società,
poi. Politici, dirigenti e cittadini devono quindi possedere una cultura
scientifica di base e la scienza deve entrare nel dibattito pubblico.
Un'ulteriore sezione era dedicata alla comunicazione e
gestione del rischio e dell'incertezza, elementi indispensabili per i policy
maker.
Per arrivare a questo obiettivo educativo, gli autori hanno
chiamato in causa principalmente le scuole, in cui la scienza e il metodo
scientifico vanno insegnati da subito, e i media, che devono incrementare
la copertura di notizie scientifiche e rapportarsi in modo costruttivo e
sinergico con gli scienziati.
Per molti versi The Public Understanding of Science è
un testo che si basa ancora fortemente su una visione top-down della
comunicazione scientifica, in cui un attore "sapiente" - la comunità
scientifica - è incaricato di educare l'altro che va quindi alfabetizzato, con
delle regole abbastanza precise che indichino cosa vuol dire alfabetizzazione
scientifica e in che modo la scuola e le università debbano educare i
cittadini.
Tuttavia, pur con i suoi limiti, è stato un grande passo in
avanti nella consapevolezza che il mondo accademico e la comunità scientifica
non potevano rimanere confinati nella proverbiale torre d'avorio, ma iniziare a
dialogare con la comunità di cui fanno parte. Ha posto, inoltre, l'accento
sull'importanza che la scienza riveste nella società e su come questa debba
essere presente nel dibattito pubblico perchè indispensabile per vivere nel
mondo moderno.
La terza missione dell'Università oggi
Il concetto di comunicare la ricerca non solo ai propri pari
- gli altri ricercatori - ma anche ad altri agenti della società, si è evoluto
ed è enormemente maturato dagli anni ottanta a oggi.
Non solo, in molti casi, è differente l'approccio che
scienziati e media hanno assunto nei confronti della comunicazione della
scienza, superando il modello top-down e arrivando a una più
inclusiva forma di dialogo fra istituzioni scientifiche e cittadini, ma
si è anche avuta una normativizzazione del fenomeno.
Anche l'Unione Europea, nel distribuire i fondi per i
progetti di cui si fa promotrice, mette la comunicazione in un ruolo centrale,
tanto da farne un criterio da cui non si può prescindere. I ricercatori devono,
quindi, obbligatoriamente comunicare l'andamento, gli obiettivi e i risultati
delle loro ricerche per poter continuare a usufruire dei fondi per il loro
progetto.
Principalmente si tratta di una comunicazione verso
l'esterno, cioè verso il pubblico generalista, attraverso iniziative come
"La notte dei ricercatori", festival e conferenze divulgative. Ma
anche, nel caso in cui il progetto di ricerca sia interconnesso con realtà
aziendali e politiche, con tutti i vari attori coinvolti più o meno
direttamente nella ricerca stessa.
Altro punto fondamentale della terza missione è anche lo scambio
di conoscenza con il mondo dell'industria. Storicamente fedeli a un Modello
Open Science in cui le università non detengono alcuna proprietà
intellettuale, si è oggi passato a un modo di fare ricerca in cui le università
conservano, proteggono e commercializzano i risultati delle loro ricerche (Modello
di Licenza) fino ad arrivare al moderno modello in cui università e
industria attuano una politica di attiva collaborazione (Modello di
Innovazione). Gli atenei stessi hanno iniziato a gestirsi in modo simile a
un'azienda, in cui la collaborazione con altre realtà, territoriali o
internazionali, genera un profitto e quindi un ulteriore finanziamento per le
proprie ricerche.
Anche l'Unione Europea ha dato un incentivo significativo
tramite i Progetti Europei, con cui ripartire i finanziamenti verso
quelle ricerche che sono in grado di generare benessere e progresso nella
società e che rientrano in un programma più ampio di obiettivi che l'Unione si
pone (come ad esempio Horizon 2020, il programma di finanziamenti per
innovazione e ricerca attualmente in atto).
Pro e Contro
L'introduzione della terza missione nelle università e negli
istituti di ricerca ha contribuito fortemente ad accrescere la consapevolezza
scientifica dei cittadini, che sempre di più si ritrovano a dover interagire in
prima persona con i ricavati della scienza e a prendere decisioni science-related.
In particolare i nuovi media sembrano aver dato una spinta positiva
aumentando la curiosità verso la scienza in un pubblico sempre più giovane.
Anche la comunità scientifica, seppur in misura minore, ha
acquistato consapevolezza di come il proprio lavoro scientifico possa uscire
dal laboratorio e avere un effettivo impatto sulla vita delle persone e sulla
società. Sempre più ricercatori, in particolare giovani, si trovano a essere
coinvolti in attività di comunicazione con il pubblico.
Dall'altro lato, però, una parte della comunità scientifica
lamenta come l'implementazione della terza missione tolga tempo ed energie al
lavoro di ricerca che dovrebbe essere l'obiettivo primario di uno scienziato.
La scrittura di un progetto, la comunicazione con il pubblico o con i
finanziatori, la partecipazione a festival ed eventi, sono attività che
richiedono tempo e, oltretutto, capacità professionali che i ricercatori non
sempre possiedono e non sono tenuti a possedere. Tuttavia carenze di questi
aspetti possono compromettere, anche seriamente, la possibilità di ricevere
finanziamenti anche da parte di atenei ed enti in cui si produce ottima ricerca
e didattica di qualità.
Per quanto l'affermarsi sempre più alto di professionisti
nella comunicazione scientifica che si occupano di questo aspetto in vece dei
ricercatori, lo svantaggio in termini di tempo ed energie richiesti per portare
avanti gli obiettivi della terza missione rimane, in particolare con gli
attuali criteri di valutazione.
Un altro problema sollevato dalla comunità scientifica è
l'appiattimento della ricerca che, vincolata a una logica industriale e di
profitto, rischia di focalizzarsi unicamente su quei campi considerati più
"meritevoli", lasciando indietro la ricerca di base o altre
discipline meno di tendenza. La comunità scientifica, pur riconoscendo quindi i
miglioramenti che la collaborazione con l'industria apporta alla società, teme
di tradire la vocazione stessa della scienza, che dovrebbe essere mossa dalla
curiosità e dal desiderio di sapere.
Nonostante i problemi che questo nuovo modo di fare ricerca
scientifica si porta dietro, comunque non si può prescindere, in una società
come la nostra, dal mantenere un vivo dialogo fra la scienza, le industrie e i
cittadini.
Bibliografia
- https://royalsociety.org/~/media/royal_society_content/policy/publications/1985/10700.pdf
- https://www.anvur.it/attivita/temi/
- https://www.scientificbulletin.upb.ro/rev_docs_arhiva/full3aa_408113.pdf
- https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0040162520311100
- https://link.springer.com/article/10.1007/s10961-015-9401-3#Sec2
- https://ec.europa.eu/programmes/horizon2020/en/what-horizon-2020
sabato 14 novembre 2020
La Vista delle Piante

Le piante ci vedono?
Ovviamente tutti sappiamo che le piante non hanno occhi, e per moltissimo tempo si è creduto che non possedessero nemmeno la vista.
In realtà prima di tutto bisognerebbe capire e definire precisamente cos'è la vista.
Ci viene naturale associare l'atto di vedere alla presenza di occhi, e forse se si parla del regno animale questo può essere anche vero, ma cosa si può dire delle piante?
Secondo molte definizioni oggi accettate dalla scienza la vista è il "senso della luce e degli oggetti illuminati". Questo cambia tutto nella nostra percezione di che cosa vuol dire vedere e di che cos'è la vista, e cambia tutto ciò che abbiamo sempre creduto di sapere sulle piante.
La luce è il cibo delle piante: la fotosintesi
Basta pensare a un girasole per capire che le piante non sono affatto immuni agli stimoli luminosi.Ma non solo, facendo una passeggiata in un bosco ci si accorge subito di come alberi e piante di vario genere siano impegnate in una lotta senza esclusione di colpi per ricevere fino all'ultimo raggio di sole disponibile.
E come dar loro torto?
In fondo dobbiamo pensare che la luce solare è la loro più importante fonte di sostentamento, il loro cibo se vogliamo, la portata principale della loro dieta basata sulla fotosintesi.
La Fotosintesi Clorofilliana è un processo biochimico che permette alle piante di sintetizzare il glucosio di cui hanno bisogno utilizzando la luce solare come fonte di energia.
E' un processo composto da due fasi:
- Fase Luminosa: grazie al pigmento verde chiamato clorofilla, le piante catturano la luce solare dando inizio a una serie di reazioni chimiche che portano alla formazione di molecole denominate ATP e NADH.
- Fase Oscura o Ciclo di Calvin: in questa fase la pianta usa l'ATP e la NADH prodotte durante il giorno per trasformare l'anidride carbonica che prende dall'atmosfera in molecole di Glucosio o di altre componenti necessarie alla sua sopravvivenza.
Certo, in una serie di reazioni così elaborate intervengono anche moltissimi altri nutrienti, come l'acqua e i sali minerali, che la pianta assorbe attraverso le radici; si può tuttavia dire che la luce è il motore principale della Fotosintesi e la pianta ha un bisogno disperato di trovarla.
Piante che seguono il sole: il Fototropismo
Se la luce è così importante, non sorprende che le piante abbiano sviluppato un'incredibile capacità di muoversi verso di essa, modificando la posizione delle foglie ma anche crescendo nella sua direzione.Questo movimento è detto Fototropismo.
Quando due piante si trovano a vivere molto vicine la competizione per la luce è una faccenda molto reale, perchè la più alta fa ombra alla più bassa.
Questo porta le piante a crescere più rapidamente in altezza per superare la rivale, una competizione chiamata fuga dall'ombra, e che era noto fin dall'antica grecia!
Se mettiano una piantina in una scatola chiusa e lasciamo una sola apertura per far entrare la luce, noteremo che quella pianta crescerà nella direzione del foro fino a uscirne per ricevere più luce possibile.
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| Esempio di Fototropismo |
Il Fototropismo è un comportamente che è stato a lungo ignorato e sottovalutato, ma che esperimenti più recenti hanno studiato più approfonditamente, scoprendo che le piante sono davvero molto più intelligenti di quanto non pensassimo.
Una crescita rapida come quella della fuga dall'ombra, ma anche il dirigersi deliberatamente verso la fonte luminosa, denota un complesso calcolo dei rischi e dei benefici; ci vuole un gran dispendio energetico, infatti, potrebbe addirittura essere fatale, eppure il beneficio rappresentato dalla luce vale l'investimento fatto.
Occhi chimici
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| Strutture dei fotorecettori |
| Schema di un ocello |
Le teorie di Haberlandt non hanno mai trovato una conferma sperimentale, ma sicuramente negli ultimi anni il mondo vegetale ha riacquistato dignità presso gli scienziati, che si sono resi conto sempre di più di come le piante non siano semplicemente degli esseri immobili. L'intelligenza delle piante è sempre più studiata e sempre più evidente studio dopo studio, e ora che gli esperimenti rivelano anche un po' del modo in cui percepiscono il mondo, dobbiamo riconoscere evidentemente come molto più che un ornamento.
Chissà, forse la conoscenza dell'intelligenza vegetale a partire dalla comprensione di come vedono e sentono il mondo, può aiutarci non solo a vivere meglio e in armonia con loro sul nostro pianeta, ma anche a dare una svolta alla nostra ricerca di intelligenze aliene.
lunedì 14 settembre 2020
Fosfina nell'atmosfera di Venere

Quando pensiamo a pianeti che possono ospitare la vita certamente Venere non è il primo che ci viene in mente: nonostante dimensioni e massa siano simili a quelle terresti la sua atmosfera è composta quasi interamente da Anidride Carbonica, ha una pressione di 92 atm, una temèperatura di circa 380°C e piogge di acido solforico.
Un bel posticino quindi.
Ultimamente però si è iniziato a rivalutare questo pianeta come possibile pianeta ospitale per la vita, in particolare ci si è concentrati su alcuni strati della sua atmosfera che si trovano a circa 50 km dalla superficie e che presentano condizioni di temperatura simili a quelle terrestri (che definiamo temperate) e di pressione atmosferica.
E' proprio qui, in queste nubi, che gli scienziati hanno rilevato la presenza di una molecola molto semplice eppure molto importante: la fosfina.
Fosfina: chimica e biochimica
Fosfina su Venere
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spettri JCMT e ALMA dell'intero pianeta attraverso l'intera banda |
sabato 1 agosto 2020
La scienza di Dark
I viaggi nel tempo e la Teoria della Relatività
L’eterna corrente trascina sempre con sé tutte le epoche attraverso entrambi i regni e in entrambi le sovrasta.
[Elegie duinesi - R.M. Dilke]
Penso che chiunque abbia anche solo sentito nominare la serie, pur senza averla vista, sa che Dark parla di viaggi nel tempo.
In realtà parla di molto altro, ma è innegabile che i viaggi nel tempo siano uno dei punti fondamentali della storia e a questi viene dato ampio spazio sia narrativamente che scientificamente.
Un concetto citato più volte è quello di Wormhole e si parla spesso di Teoria della Relatività.
Ma di cosa si sta parlando?
La Relatività Ristretta e, successivamente, la Relatività Generale, sono due teorie fisiche formulate da Albert Einstein nel 1905 e nel 1915.
Furono teorie rivoluzionarie per la fisica di quell'epoca perché fino a quel momento ci si era basati sulle leggi di Newton e sulla cosiddetta Relatività Galileiana, per cui le leggi matematiche che governano i fenomeni naturali sono le stesse in qualunque sistema di riferimento.
Era un periodo però di grande fermento scientifico, quello di inizio novecento, e già si era trovato che i fenomeni elettromagnetici uscivano da questo tipo di visione del mondo, ma non c'era in effetti una vera e propria teoria matematica a supportare queste evidenze.
Einstein riuscì con le sue teorie non solo a dare a questi dati un fondamento matematico, ma a rivoluzionare completamente la fisica (ma non solo!), smentendo contemporaneamente la teoria dell'Etere (una sorta di fluido invisibile che si credeva pervadesse tutto e in cui si muovevano le onde elettromagnetiche) e inoltre a introdurre il concetto di spazio-tempo.
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| rappresentazione semplificata della deformazione dello spazio-tempo |
Dobbiamo considerare che la Terra non agisce direttamente sulla pietra, ma in un certo senso possiamo dire che la Terra agisce sullo spazio-tempo in cui è immersa, creando come effetto, quindi, ciò che noi chiamiamo gravità.
Immaginiamo lo spazio-tempo come un enorme telo teso, e su questo telo poniamo un peso, come ad esempio la Terra.
Questa deforma il telo creando un avvallamento.
Se ora noi mettiamo sul telo una pallina più piccola e leggera, vedremo che essa tende a finire dentro questo avvallamento creato dalla Terra pesante.
Un'altra cosa che noteremo è che man mano che la pallina si avvicina al centro dell'avvallamento (la cosiddetta singolarità), inizierà ad andare più veloce.
Ecco perché parliamo di spazio-tempo, perché non solo abbiamo una deformazione dello spazio, ma anche del tempo che non è più una costante immutabile, ma è diverso a seconda di dove ci si trova.
Se immaginiamo che la nostra pallina sia un'astronave al cui interno c'è un uomo, avremo che quest'uomo invecchia più lentamente di, diciamo, il suo fratello gemello rimasto sulla Terra.
Sono differenze piccolissime che però posso acquistare una certa rilevanza a grandissime distanze e che hanno una certa rilevanza anche nella nostra vita di tutti i giorni, perché l'aggiustamento di queste minuscole variazioni di tempo permette ai nostri dispositivi GPS di funzionare correttamente.
Naturalmente questa spiegazione è molto semplificata, certamente la Terra non è poggiata sullo spazio tempo, ma vi è immersa, e c'è parecchia matematica a supportare il tutto, fino ad arrivare alla famosissima equazione dell'Energia e della Massa E=mc^2.
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| rappresentazione di uno wormhole |
Dal Gatto di Schrodinger agli Universi Paralleli
Penso si possa tranquillamente affermare che nessuno capisce la meccanica quantistica
[Richard Feynman]
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| Niels Bohr |
| il gatto di Schrodinger |
| i molti gatti |
La Teoria del tutto
“Sono lieto che la nostra ricerca della comprensione non finirà mai e che avremo sempre la sfida di una nuova scoperta. Senza di essa, ristagneremmo“
Bibliografia
- "L'ordine del tempo", Carlo Rovelli - Adelphi
- "Relatività: esposizione divulgativa" , Albert Einstein - Universale Bollati Boringhieri
- "Wormholes in spacetime and their use for interstellar travel: a tool for teaching general relativity" , Michael S. Morris and Kip S. Thorne
- "L'incredibile cena dei fisici quantistici" , Gabriella Greison - Salani Editore
- "La Realtà Quantistica" , Danilo Babusci, Matteo Mascolo - INFN-Laboratori Nazionali di Frascati Via E. Fermi 40, Frascati, Italy
- "On the Role of Entanglement in Schrodinger’s Cat Paradox" , Stefan Rinner · Ernst Werner
- "Quantum theory, the Church-Turing principle and the universal quantum computer" , David Deutsch
giovedì 2 aprile 2020
Quanto è acida la Coca Cola?
La storia in breve
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| John Pemberton |
- Acqua
- Anidride carbonica
- Zucchero (solitamente sciroppo di glucosio, ma diversi dolcificanti possono essere utilizzati nelle versioni dietetiche o in altre)
- Colorante E150d (caramello solfito ammoniacale)
- Acido fosforico
- Aromi naturali (tra i quali è presente l'estratto di foglie di coca)
- Caffeina (in genere sui 100mg/l ma in quantità variabile in versioni dietetiche o altre)
Quanto acido c'è?
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| si immergeun pezzo di cartina nella soluzione e si confronta con i valori standard indicati |
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| esempio di titolazione e costruzione della curva di titolazione |
- Tramite uno strumento (ad esempio uno spettrofotometro o un potenziometro)
- Tramite un indicatore di pH
| Indicatori acido/base fonte https://it.wikipedia.org/wiki/Indicatore_(chimica)#Indicatori_acido-base_(o_indicatori_di_pH) |
Titolazione dell'Acido Fosforico
| Curva di titolazione di Acido Fosforico con Idrossido di Sodio |
Bibliografia:
- http://www.treccani.it/90anni/parole/1927-coca-cola.html
- J. Chem. Educ. 1983, 60, 5, 420 Publication Date:May 1, 1983 https://doi.org/10.1021/ed060p420
- Martín, Julia, Gloria Cañamares Marin, and Agustin G. Asuero. "Titration Error in Polyprotic Acid-Base Titrations: Applications to Titration of Vinegar, Cola Drinks and Antibiotic Batches."
mercoledì 7 agosto 2019
La chimica dei colori: il blu
Dopo una introduzione in cui vi ho parlato di come si definiscono i colori e dello spettro della luce visibile, veniamo ad argomenti probabilmente più interessanti e pratici e al primo approfondimento su un colore in particolare: il blu.
Definizione di blu
Il blu è uno dei colori percepibili dall’uomo, appartenente pertanto allo spettro del visibile, situato a circa 470 nm fra il ciano e il violetto.
Nella pittura è sempre stato considerato un colore primario, ma secondo la moderna teoria dei colori questo non è corretto, essendo i colori primari il ciano, il magenta e il giallo.
È un colore storicamente molto apprezzato, in particolare dagli antichi Egizi, ma anche dai pittori medievali nonostante fosse molto difficile da reperire e pertanto riservato alla raffigurazione di Cristo o della Vergine, come simbolo di purezza e divinità.
Non era invece molto popolare fra Gregi e Romani, in quanto veniva associato al colore azzurro degli occhi dei barbari.
Un piccolo excursus: coloranti, pigmenti e lacche
Prima di lanciarci nella storia di questo colore, è utile dare qualche definizione che ci aiuti a capire la differenza fra i diversi tipi di sostante colorate utilizzate dall’uomo.
I pigmenti sono generalmente i più comuni, in particolare se si parla di arte pittorica. Sono chiamati anche “terre” in quanto sono costituiti da polveri di varia natura (più spesso di origine minerale) insolubili nel mezzo in cui sono utilizzate, che vengono applicate tramite dispersione meccanica.
I coloranti invece sono sostanze organiche (possono essere sia naturali che di sintesi) solubili in un solvente. Essi si legano direttamente alle molecole dell’oggetto da colorare (ad esempio un tessuto) e impartiscono una colorazione stabile non solo superficiale ma su tutta la massa.
Le lacche, infine, sono pigmenti ottenuti rendendo insolubili dei coloranti, o precipitandoli come sali insolubili di cationi metallici o, a seconda della natura del colorante, facendoli reagire con poliacidi complessi.
Il blu: un colore difficile da trovare
Nell’antichità il grande problema del blu fu la sua reperibilità. La fonte principale per il pigmento blu fu il Lapislazzulo, i cui giacimenti si trovavano dove ora sorge il moderno Afganistan, o il più abbondante minerale Azzurrite, un carbonato di rame che però presentava dei problemi di stabilità.
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| Lapislazzulo |
La sua formula chimica è (CaCuSi4O10) e la sua produzione iniziò più di 5200 anni fa e fu conosciuto anche da Greci e Romani e persino in Mesopotamia.
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| Manufatto dipinto con il Blu Egizio |
La sua sintesi partiva da materiali facilmente accessibili come il limo, la sabbia e minerali quali azzurrite o malachite, ma non sappiamo come questa produzione fu iniziata e perfezionata fino ad arrivare al prodotto che è giunto fino a noi, sappiamo però che per oltre 4000 anni la sua composizione è rimasta invariata e che quindi si può presumere che gli antichi egizi arrivarono ben presto alla formula definitiva. In ogni caso la sintesi di questo pigmento comportava anche l’aggiunta di additivi come sale o cenere di papiro, e un controllo costante della temperatura, che doveva mantenersi sempre fra gli 800° C e i 900° C, e considerando che all’epoca non si disponevano di strumenti per misurarla come i termometri, non doveva essere affatto un compito facile.
Simile al Blu Egizio è quello che viene chiamato Han Blu, un pigmento rinvenuto in Cina e che presenta con il più famoso fratello occidentale, una struttura chimica che differisce unicamente per la presenza del Bario (Ba) al posto del Calcio (Ca).
| Generico MCuSi4O10 |
Dopo la caduta dell'Impero Romano, il Blu Egizio praticamente scomparve dall’arte, fino ai tempi moderni dove è stato riscoperto dagli archeologi e riprodotto in laboratorio dai chimici.
Più che per le sue doti artistiche, però, questo pigmento è oggi studiato per le sue caratteristiche chimico-fisiche molto interessanti: la sua struttura cristallina particolare fa sì che riesca ad assorbire radiazioni infrarosse.
Una frase del genere potrebbe non voler dire nulla a chi non è del mestiere, ma in realtà è una caratteristica importantissima e che può portare a moltissime applicazioni in vari campi.
Il primo e più comune è quello sempre crescente della diagnostica dei beni culturali, cioè quella scienza che si occupa di esaminare opere d’arte o reperti archeologici per stabilirne le caratteristiche, la provenienza, l’epoca storica o per valutarne l’autenticità. Naturalmente questo lavoro è molto delicato e la ricerca di metodi che riescano a trarre molte informazioni senza che l’oggetto in esame venga rovinato è sempre aperta. Fortuna vuole che questo antico pigmento, così comune in reperti di epoca egizia sia visibile a strumenti che emettono radiazioni Infrarosse e che quindi possa essere riconosciuto facilmente e senza andare ad intaccare in alcun modo l’oggetto.
L’assorbimento di radiazione IR, comunque, è una porta aperta anche sul mondo delle comunicazioni e delle tecnologie ad esse legate, e lo studio del pigmento Blu Egizio si muove anche in quella direzione, chissà se fra qualche anno non avremo fibre ottiche o computers fatti proprio di questo materiale!
Il blu nei secoli
Come ho detto, dopo la caduta dell’Impero Romano, del Blu Egizio si perde ogni traccia. Durante il Medioevo il blu diventa un colore estremamente raro e l’unica fonte era rappresentata dall’Acquamarina, un minerale molto prezioso. Nel Rinascimento pertanto il blu divenne simbolo di purezza associato al mantello della Vergine Maria, o di divinità associato alla figura di Cristo.
Bisogna aspettare il 1704 prima di avere un primo pigmento di sintesi, il cosiddetto Blu di Prussia: venne scoperto casualmente da Diesbach che stava tentando di sintetizzare un pigmento rosso utilizzando sali di potassio e alcali. Questo è un sale di Ferro, per la precisione un ferrocianuro ferrico, ed è utilizzato spesso nei saggi per la determinazione della presenza di cianuro o come chelante nel trattamento di avvelenamento da metalli pesanti. È il colore nazionale francese ed era usato per colorare le uniformi degli eserciti napoleonici.
| Blu di Prussia |
Grandissima importanza storicamente ha avuto il Cobalto per la produzione di pigmenti blu sintetici, in combinazione di ossido con alluminio, fosforo, zinco e altri materiali per dare una grande varietà di sfumature.
| Indigofera Tinctoria |
Bluetiful
Dopo la sintesi del Blu Cobalto (1802) sono passati più di 200 anni prima che si sintetizzasse una nuova tonalità di blu: l’YInMn Blue (Y=Ittrio ; In=Indio; Mn=Manganese).
Noto anche come Mas Blue, è un pigmento inorganico blu scoperto per caso dallo studente Andrew Smith nel laboratorio del professor Mas Subramanian presso l'Università statale dell'Oregon nel 2009. Smith stava effettuando degli esperimenti per ottenere una fibra ad alta conducibilità elettrica mediante ossidi di Ittrio, Manganese e Indio. Dopo averli messi in forno a quasi 1200° F (circa 649°C) ottenne un impasto che non aveva le proprietà richieste, ma che era di colore blu brillante e che rifletteva in modo insolito la radiazione IR.
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| YInMn Blue o Mas Blue |
Questo nuovo pigmento era inoltre privo di tossicità (a differenza del blu cobalto o del blu di prussia), incredibilmente stabile e la sua capacità di riflettere l’infrarosso lo faceva essere meno soggetto a riscaldamento e quindi adatto a essere usato come vernice per automobili o nel restauro dei dipinti.
Dopo la scoperta, è stato aperto al pubblico un concorso per poter stabilire un nome commerciale di questa nuova tonalità e alla fine l’azienda di pennarelli Crayola, nel 2017, lo ha finalmente commercializzato con il nome vincitore: Bluetiful.
Bibliografia:
- Berke, Heinz. "Chemistry in ancient times: the development of blue and purple pigments." Angewandte Chemie International Edition 41.14 (2002): 2483-2487.
- J.R. Barnett et al. / Optics & Laser Technology 38 (2006) 445–453
- Philip McCouat, "Egyptian blue: the colour of technology", www.artinsociety.com
- Accorsi, Gianluca, et al. "The exceptional near-infrared luminescence properties of cuprorivaite (Egyptian blue)." Chemical Communications 23 (2009): 3392-3394.
- García-Fernández, Pablo, Miguel Moreno, and José Antonio Aramburu. "Origin of the exotic blue color of copper-containing historical pigments." Inorganic chemistry 54.1 (2014): 192-199.
- http://www.artspecialday.com/9art/2017/05/20/la-scoperta-yinmn-blue/
- https://it.wikipedia.org/wiki/YInMn_Blue

























